TheSilverCord

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Camerieri neri, nei “restaurants”, avevano il frac, per quanto pieno di padelle: e il piastrone d’amido, con cravatta posticcia. Solo il piastrone s’intende: cio? senza che quella imponentissima fra tutte le finit? pettorali arrivasse mai a radicarsi in una totalitaria armonia, nella fisiologia necessitante d’una camicia. La quale mancava onninamente.
Pervase da un sottile brivido, le signore: non appena si sentissero onorare dell’appellativo di signora da simili ossequenti fracs. “Un misto panna-cioccolato per la signora, sissignora!”. Era, dalla nuca ai calcagni, come una staffilata di dolcezza, “la pura gioia ascosa” dell’inno. E anche negli uomini, del resto, il prurito segreto della compiacenza: su, su, dall’inguine verso le meningi e i bulbi: l’illusione, quasi, d’un attimo di potest? marchionale. Dimenticati tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte, le barricate, le comuni, le minacce d’impiccagione ai lampioni, la porpora al P?re Lachaise; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti; e le cagnare e i blocchi e le guerre e le stragi, d’ogni qualit? e d’ogni terra; per un attimo! per quell’attimo di delizia. Oh! spasimo dolce! Procuratoci dal reverente frac: “Un taglio limone-seltz per il signore, sissignore! Taglio limone-seltz al signore!”. Il grido meraviglioso, fastosissimo, pieno d’ossequio e d’una toccante premura, pi? inebriante che melode elisia di Bellini, rimbalzava di garzone, di piastrone in piastrone, locupletando di nuovi sortilegi destrogiri gli ormoni marchionici del committente; finch?, pervenuto alla dispensa, era “un taglio limone-seltz per quel belinone d’un 128!”.
S?, s?: erano consideratissimi, i fracs. Signori seri, nei “restaurants” delle stazioni, e da prender sul serio, ordinavano loro con perfetta seriet? “un ossobuco con risotto”. Ed essi, con cenni premurosi, annuivano. E ci? nel pieno possesso delle rispettive facolt? mentali. Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione gli uni gli altri. Gli attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapione d’un molleggio adeguato all’importanza del loro deretano, nella dignit? del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, “quando ? fesso!”. Dietro l’Hymalaia dei formaggi, dei finocchi, il guardasala notifica le partenze: “!Para Corrientes y Riconquista! !Sale a las diez el r?pido de Paran?! !Tersero and?n!”.
Per lo pi?, il coltello delle frutta non tagliava. Non riuscivano a sbucciar la mela. O la mela gli schizzava via dal piatto come sasso di fionda, a rotolare fra scarpe lontanissime. Allora, con voce e dignit? risentita, era quando dicevano: “Cameriere! ma questo coltello non taglia!”. Tra i cigli, improvvisa, una nuvola imperatoria. E il cameriere accorreva trafelato, con altri ossibuchi: ed esternando tutta la sua costernazione, la sua piena partecipazione, umiliava sommessa istanza appi? il corruccio delle Loro Signorie: (in un tono pi? che sedativo): “provi questo, signor Cavaliere!”: ed era gi? trasvolato. Il quale “questo” tagliava ancora meno di quel di prima. Oh, rabbia! mentre tutti, invece, seguitavano a masticare, a bofonchiare addosso agli ossi scarnificati, a intingolarsi la lingua, i baffi. Con un sorriso appena, oh, un’ombra una prurigine d’ironia, la coppia estrema ed elegantissima, lui, lei, lontan lontano, avevan l’aria di seguitar a percepire quella mela, finalmente immobile nel mezzo la cors?a: lustra, e verde, come l’avesse pitturata il De Chirico. Nella quale, bestemmiando sottovoce, alla bolognese, ci intoppavano ogni volta le successive ondate dei fracs-ossibuchi, per altro con lesti caldi in discesa, e quasi in rimando, l’uno all’altro: alla Meazza, alla Boffi.
Erano degli strameled?sa buccinati via come sputi di vipera, non tanto sottovoce per? da non arrivare a capir cosa fossero: da dietro pile di piatti in tragitto, o di bacinelle di maionese, o cataste d’asparagi di cui sbrodolava gi? burro sciolto sul lucido; perseguiti poi tutti, tutt’a un tratto, da improvvise trombe marine di risotti, verso la proda salvatrice.
Tutti, tutti: e pi? che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi! A nessuno, mai, era venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri, putacaso, dei bambini di tre anni.
Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e le verruche, i n?i, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari. Neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio.
E quella era la vita.
Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che la lunga pezza oramai, cio? fin dall’epoca dell’ossobuco, si era andato a mano a mano accumulando nella di loro persona – (come l’elettrico nelle macchine a strofin?o) – ecco, ecco, tutti eran certi che un loro impreveduto decreto avrebbe lasciato scoccare sicuramente la importantissima scintilla, folgore e sparo di Signoria su adeguato spinterogeno ambientale, di forchette in travaso.
Cascate di posate tintinnanti! Di cucchiaini!
Ed erano appunto in procinto di addivenire a quell’atto imprevisto, e per? curiosissimo, ch’era cos? instantemente evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d’argento: poi, dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d’oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, rinchiuso nel frattempo dall’altra mano, con un tatr?c; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor frotte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n’erano gi? stati tutti spiccati, per il che, con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini dell’Io. E derelitta, ecco, giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua immagine del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unit?, strofinavano, accendevano; spianando a serenit? nuova fronte, gi? cos? sopraccaricata di pensiero: (ma pensiero fessissimo, riguardante, per lo pi?, articoli di bigiutteria in celluloide). Riponevano la non pi? necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? oh! se ne scordano all’atto stesso; per aver motivo di rinnovare (in occasione d’una contigua sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli “altri tavoli”, aspiravano la prima boccata di quel fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac; in una volutt? da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E cos? rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell’Aida o il toreador della Carmen.
Cos? rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.

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